martedì 6 settembre 2011

IL BATTESIMO DI "FUOCO"

Non ero mai salita prima su una moto. Mi è stato detto “il tuo casco deve stare sempre più laterale al mio”, pronti partenza e via. Non saprei descrivere la sensazione, a metà tra la barca a vela e un Quarter Horse. Sentivo l’aria – aria, il mio elemento – scorrere sotto di me, accarezzarmi, ad ogni accelerata mi sembrava di sollevarmi, di rivivere quei giorni in mezzo al Golfo di Trieste, solo che al posto delle meduse bluette c’erano colline giallo estate, e al posto delle onde che inclinavano la barca orecchie che si avvicinavano al suolo, e al posto del grande fiocco “123” un manubrio dall’accellerata dolce. Nei tornanti scrutavo l’orizzonte, seguivo la strada come se non avessi fatto altro nella vita, e poi stringevo le gambe e abbassavo i talloni, come un buttero. Non sono nata centaura o amazzone o non so come si dica. Ma qualcosa di simile ce l’ho nel sangue. L’aria, la velocità, il vagare errante tanto per sfuggire, inseguendo le nuvole e il tramontare del sole. “tieni il casco chiuso, ci entrano gli insetti”. Macché. Io voglio sentire l’aria sulla faccia, persino le lacrime scendere e la pelle diventare di vetro, ma voglio sentire ogni singolo odore, diventare barometro, metereologo, nocchiere, mozzo. “quando chiudo la visiera, i pensieri restano dentro. Non esiste altro. Vedo le immagini scorrere tra me e me. La moto è un’ottima cura”. No, quando chiudo la visiera l’”orobiologio” parte all’impazzata. Non quello del contachilometri o delle ore. Quello che scandisce la vita in me, quella vita che ogni tanto mi sfugge, che ho odiato fino a volerla soffocare nel sonno. Riparte, a ritmo delle curve e controcurve, la sento, “ e non c’è modo più dolce di morire e più frizzante per vivere”, hai ragione, Mio Capitano. Non c’è paura. In pochi chilometri imparo a fare l’acrobata, scatto foto in movimento, con una mano sola poi con due, come al circo equestre, e mixo la musica e canto e immagino il mio palco e dimentico le mie ferite. La cosa più strabiliante? Partire decidendo una meta e arrivare da tutt’altra parte. Berlino, no, l’argentario, no, il Gran Sasso. Dormiamo a Saturnia, no, ci accampiamo in un uliveto nel trasimeno. Facciamo l’autostrada, ma no, passiamo dai paesini incastonati nei monti. Arriviamo presto per andare al mare, macché, due ore seduti ad un bar dove dovevamo fare solo benzina. Salite, discese, virate, strambate, terra a prua! E colline gialle, e tramonti sulla ferrovia, e il distributore che non funziona – cazzo! S’è fermata! – e la riserva che ci abbandona giusta giusta davanti alla pompa di benzina. E le notti stellate, a decifrare geroglifici siderali, e sfide a ramino o a calciobalilla, e umidità, e freddo, e caldo, e pioggia a dirotto e poi sereno. Non importa se nella nostra strada c’erano case o chiese, bellearti o cementifici, paesi o città, colline o autostrade, mare o montagna. Quello che ricordo è il vento in faccia che sa di libertà, una malattia che dà dipendenza.

2 commenti:

  1. No so chi tu sia, ma hai scritto un gran bel post. L'analogia con la vela mi fa venire ancora più voglia di provare. Ciao.

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  2. Mirko ha fatto un ottimo affare... :-)

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